Avevo questa idea, che i nomi forgiassero le persone, che le influenzassero, in qualche modo. E che dare un nome significasse assegnare un marchio, una sorta di codice genetico immodificabile. Un compito delicato, per i genitori di nascituri, una grossa responsabilità. Nomen omen, lo dicevano pure i latini, e i latini difficilmente si sbagliavano, o non li avremmo studiati tanto a lungo a scuola.
Stilavo il mio prontuario di nomi propri e dei caratteri associati. Elena era un nome rischioso, per esempio. Sarebbe stata una bambina con le scarpette lucide col cinturino, la gonna plissettata, le mollette nei capelli. Bionda e rosea di pelle, l’avrebbero portata a messa tutte le domeniche, e non avrebbe mai imparato a correre come si deve. Le Elene nel mio catalogo dei nomi erano condannate a condurre una vita casalinga, forse anche un matrimonio quieto e un paio di figli noiosi. Una vera cattiveria, chiamare Elena una bimba appena nata, come castrarle subito ogni possibilità. Anche le Elisa erano un po’ a rischio, troppo remissive. Però, per lo meno, le Elisa non avrebbero avuto l’aspetto grassottello delle Elene, sarebbero state più alte e slanciate. Piuttosto slavate anche loro, però. Le Barbare al contrario sarebbero venute su brune e combattive, ma troppo aggressive. Sveva invece era un nome intrigante. Sveva sarebbe stata uno spirito libero, avrebbe viaggiato per terra e per mare, avrebbe scritto storie.
Il mio nome, Cristina, era una condanna senza appello. Un nome grasso e goffo. Non importava che io fossi una bimba magrolina, il nome mi forgiava, e mi condannava. Evitavo di pronunciarlo ad alta voce. Mi sentivo sprofondare quando al momento delle presentazioni dovevo confessare il mio nome, lo soffiavo in un sussurro. Come? Come ti chiami? Non ho capito, dillo più forte. E’ timida, diceva mia madre.
Ci sono cresciuta dentro, a questo mio nome, e via via è diventato qualcosa di consueto, come un difetto fisico cui si faccia l’abitudine, col tempo.
C’era anche il modo di confezionarlo meglio, talvolta, offriva qualche appiglio gradevole. Crissi, mi chiamava la mia migliore amica. Cris, CriCri, Crissolina, Cri. Gli affluenti del nome principale erano spesso ruscelli gradevoli, freschi, dal sapore dolce. A volte si intessevano di storie belle. Come quando dal villaggio Pifano le sere d’estate andavamo a piedi a Villammare a comprare il gelato, e mano nella mano con mio padre, camminando lungo la strada buia, ascoltavamo i grilli, e mio padre diceva li senti i grilli? Li senti? Cri Cri Cri, chiamano te. E io mi sentivo d’improvviso avvolta dall’amore di tutti questi grilli che rischiaravano la notte cantando il mio nome.
A volte invece veniva usato come strumento contundente, il mio nome. Come quando mi si diceva che non potevo essere davvero atea, io, con un nome che richiamava il Cristo in ogni sua fibra. Lo conteneva come un germe, come una malattia incurabile, e per me non c’era scampo.
Secondo la stessa logica però sarei dovuta essere irrimediabilmente stupida, perché il nome Cristina è anche molto affine all’aggettivo cretina, le lettere si adagiano l’una sull’altra, combaciano quasi alla perfezione. Mio fratello era un veemente sostenitore di tale tesi.
Crestina mi chiamava l’anziana tata di mio padre, Ida, e non so per quale buffa associazione a me veniva in mente il giallo della polenta. Era un nome color polenta, Crestina, e in qualche modo mi piaceva, perché era pronunciato con campagnola schiettezza, e con affetto.
A mia nonna Tommasina piaceva il nome così com’era, nella sua forma intera. Perché era anche il suo secondo nome, ed era il nome della santa di Sepino, sua città natale. E mi raccontava la storia di questa santa, che era di Bolsena, ma le sue ossa se ne erano venute a Sepino, e così era diventata santa anche lì. Della santa mi importava poco, ma di portare il secondo nome della nonna ero fiera, io l’unica fra tutte le nipoti.
Col tempo m’è un po’ scemata questa ossessione per i nomi. Non ci ho più pensato, né al mio, né agli altri. Fino a questa mattina. Il mio parrucchiere mi ha chiamato per nome, stamattina. Due, tre, quattro volte.
E’ più di un anno che vado da lui, quasi un record per me, che sono vagabonda e fedifraga di parrucchieri per natura, tanto che ho elaborato quasi una tesi sulla necessità di cambiare il parrucchiere ogni tot tempo, che intorno al terzo taglio si abituano, ti danno per scontata, non ti guardano più, non si impegnano a fare un bel taglio. Come certi mariti, che smettono di guardare. O che forse non hanno mai veramente visto.
Il mio parrucchiere mi è piaciuto subito, dalla prima volta, perché non parla. Non mi ha mai costretta a noiosi banali dialoghi da negozio. Ma oltre a questo mutismo elettivo, che già di per sé me lo fa preferire a tutti i parrucchieri provati negli anni, ha una dote altrettanto rara e pregevole. Ama il suo lavoro. Lo capisco dal suo passo morbido, dall’eleganza dei suoi movimenti, dal calore che mi avvolge mentre si prende cura dei mie capelli in modo sicuro e delicato. Ha tanti clienti, ma è lì per me. Senza parlare, mi dedica tutta la sua attenzione. Mi affido a lui, mi rilasso, chiudo gli occhi. Oggi per la prima volta ha pronunciato il mio nome. Come vogliamo tagliarli oggi, Cristina? Sei sicura, li facciamo allora come abbiamo detto prima, Cristina? Non hai cambiato idea nel frattempo? Mi ha sorpreso questo insistere sul mio nome. Mi sono ricordata di quando, molto tempo fa, un altro parrucchiere aveva preso a chiudere col mio nome ogni frase che pronunciava. Avevo pensato allora che doveva essere una cosa che insegnano ai corsi per parrucchieri, chiamate la cliente per nome, la fa sentire importante, oggetto della vostra attenzione, qualcosa del genere. In quell’occasione avevo odiato ogni singola volta che il mio nome veniva pronunciato. Anche perché non era il mio nome. Caterina, mi ha chiamato tutto il tempo. E io non l’ho corretto.
Oggi mi sono sorpresa, dicevo, a sentire il mio nome tante volte, e mi è tornato in mente quell’episodio. Ma stavolta era tutto diverso. C’era attenzione vera, nel chiamarmi per nome. C’erano occhi sorridenti, dietro. C’era calore umano. E Cristina è stato, per due ore, un bellissimo nome.
E allora ho capito, forse, che i nomi non sono indelebili marchi di fabbrica, sentenze di condanna, malattie incurabili. Non forgiano il nostro carattere, non ci costringono in personalità. Piuttosto nascono, e crescono con noi. Con noi cambiano, e come noi si modellano, con le nostre scelte, negli incontri, sotto gli sguardi belli.
Con noi, come noi, cambiano, e si trasformano.