Mi sono trovata, questa sera, per caso, con il viso vicinissimo al lume da tavolo. Ed è successo.
Vi capita mai di sentire un odore, un profumo nell’aria, qualcosa che apre la diga dei ricordi? Ecco, è successo questo, stasera.
L’odore della lampada caldissima è lo stesso del braciere che s’usava a casa di mia nonna, a Salerno. Una larga padella a contenere le braci roventi, una struttura di ferro che proteggeva il braciere, e coperte di lana sulla struttura.
Ci si sedeva tutti intorno alla struttura, ognuno sulle gambe un lembo di coperta a convogliare il calore. Quando nelle case non c’erano i riscaldamenti, altri tempi. I grandi conversavano fra loro. Noi piccoli giocavamo, ma non essendo ampi gli spazi di manovra, si giocava da fermi. Un modellino di macchina da guidare su e giù per la coperta, un peluche da accarezzare, non molto d’altro. Io fantasticavo, come sempre. Parlavo fra me e me, intessevo storie.
La casa dei nonni era immensa, ai miei occhi, e piena di insidie. C’era un disimpegno buio, interno, senza finestre, l’aria un po’ viziata. Una tenda fungeva da parete ad isolare uno spazio che veniva utilizzato come magazzino per valigie e cianfrusaglie inutili, nulla si buttava mai nelle famiglie che avevano vissuto la miseria della guerra.
La guerra, quando mia nonna, con una bimba piccola e una neonata, perduto il latte per sortilegio o per fame, doveva arrangiarsi con una balia. Me la immaginavo, la balia, vestita alla maniera paesana, vesti su vesti, il seno enorme di latte, il suo neonato attaccato a un seno, mia zia all’altro.
Era lì anche lei, la balia, nel disimpegno. Immobile, gli occhi luminosi e penetranti, e il suo alito caldo faceva ondeggiare appena la pesante tenda.
Cercavo sempre di evitare quel disimpegno. Se proprio dovevo passarci, lo facevo correndo e trattenendo il fiato, già sentendo la mano della balia sfiorarmi la schiena per afferrarmi… sgusciavo via piena di infantile terrore, e mi tuffavo nella sala da pranzo, calda di braciere e di parole, guadagnandomi ogni volta il rimprovero secco del nonno, “bambini, non si corre in casa!”.
Nonno Salvatore preparava la colazione per noi piccoli, la mattina. Il latte era sempre troppo caldo. Non riuscivo a berlo, e il nonno si stizziva. “Ma che caldo e caldo, è appena tiepido, questi bambini sono viziati…!”. Ma io non bevevo, complice mia madre che mi faceva l’occhiolino. Brontolii di vecchi, suggeriva il suo sorriso trattenuto, ma lo stesso io mi mortificavo ai rimproveri del nonno.
La nonna al contrario non s’inquietava mai. I suoi capelli s’erano imbiancati precocemente, sicchè li tingeva di castano, con un’unica ciocca bianca che riluceva sulla fronte. Una magia, pensavo, come nella fiaba che l’altra nonna mi raccontava la sera, prima di dormire, “coda d’asino e stella in fronte”, la mia preferita. Non poteva essere altrimenti, del resto, era una fiaba popolata di gattini che abitavano una casetta fatata in fondo al mare, ed io ho sempre amato i gatti, e le case fatate in fondo al mare.
L’altra fiaba che amavo, e che pregavo la nonna di raccontare ancora, e ancora, era quella della principessa sul pisello. Rabbrividivo con la principessa nella tempesta, con lei bussavo tremante e disperata al castello, e come lei venivo sospettata di essere una mendicante. Ma non m’importava, non mi importava di quel che potevano pensare al castello. Ero una principessa, dentro. Sapevo di esserlo, pensassero pure quel che volevano.
E anche oggi, talvolta, quando la vita vuole ferirmi, mi rannicchio in me. E ora, come allora, penso: “non importa, non importa, io sono una principessa”, e mi lascio avvolgere dal caldo soffio del sogno.