Tamara

19 Luglio 2009
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Tamara è arrivata alla fine del suo percorso in questa vita. Come i suoi cuccioli, nati troppo deboli per sopravvivere. E come Mimmi, Micione, Oscar… e tutti i gatti che per un tratto hanno accompagnato la nostra vita, rendendola più dolce, lieve e divertente.

E’ un momento di dolore, e chiunque abbia amato un animaletto, sa che non esagero.

Ma, come dice mio fratello, bisognerebbe ricordare i nostri piccoli compagni nella luce della vita, non nel triste crepuscolo della morte.

E allora ricordiamola Tamara, che è stata luce, col suo pelo fulvo e gli occhi arancio.

La comprammo mia madre ed io, in comproprietà, fifty-fifty.

Autunno 1993.

Lavoravo già, all’epoca, a Campobasso. Ma il fine settimana tornavo a casa a farmi coccolare un po’.

Anche quel week end ero a Roma, e c’era una mostra felina all’Hotel Ergife.

Uscimmo di casa allegre come passerotti, lasciandoci dietro l’eco degli ammonimenti di mio padre, “non vi azzardate a tornare con un gatto…!”. No no, tranquillo, niente acquisti, si va solo a vedere…

L’Ergife era un tripudio di felina eleganza. Gatti di tutte le fogge e dimensioni, con tanto pelo, poco pelo, musi corti e lunghi, code e non code. Tutti aristocraticamente indifferenti alla confusione intorno. E poi… i cuccioli! Io e mia madre saltellavamo come invasate da una gabbia all’altra, informandoci su razze e caratteri e… ehm, prezzi. L’eco delle parole di mio padre, ahimè, si perdeva miseramente nell’assordante concerto di fusa collettive.

C’era un micetto persiano di otto mesi, la padrona ne decantava la dolcezza di carattere. Dorme sempre sulle mie pantofole, diceva. Il cucciolo, preso in braccio, pendeva da tutte le parti come uno straccetto, morbido di pelo, lo sguardo rassegnato. Non era difficile immaginarlo aderire ad una pantofola.

Ma nella gabbietta accanto altri cuccioli avevano attratto la nostra attenzione. Tre, persiani. Tre femmine, calico le prime due, rossa la terza. Allegre ruzzavano e s’accapigliavano alla maniera dei persiani: zampate morbide, senza unghie, da signora aristocratica che porge la mano inanellata alle cure dell’estetista. Che splendore la micetta rossa! Prezzo? Quattrocentomilalire. Ci guardiamo, mia madre ed io, solo un momento. L’attimo successivo stiamo già pescando il libretto degli assegni nella borsa…

Ma c’è un problema. Il regolamento della mostra vieta di far uscire i gatti prima del termine della manifestazione. Dovremo occultare la gattina in un borsone e contrabbandarla fuori del palazzo. La strategia è efficace, ma da subito appare di non facile realizzazione. La micetta salta fuori dalla borsa non appena il padrone prova a metterla dentro. Riacciuffata, infilata di nuovo, eccola che salta via ancora! Al terzo tentativo la piccola deve aver capito che si tratta di un nuovo divertente gioco, e con l’agilità di una mangusta salta dentro e fuori della borsa, riuscendo a sgusciare da aperture sempre più anguste, nella costernazione del proprietario.

Ex proprietario, in verità. L’assegno è firmato, Tamara è nostra.

Riusciamo infine a condurla fuori del palazzo in una gabbietta, mentre l’addetto finge di non notare la trasgressione al regolamento.

Un miao prolungato sotto le finestre di casa rende noto a mio padre quel che già temeva. Vi poooossino! dice… e già è lì pronto con la lista degli inconvenienti dell’avere un animale per casa, quando la piccola, aperto lo sportellino della gabbia, fa la sua entrata trionfale in casa. E’ bellissima. Cosa c’è da aggiungere? Niente, infatti.

Tamara è diventata la gatta dei miei genitori. Di mia madre e di mio padre.

Io lamento che si è trattato di un rapimento. Mio padre, magistrato, sostiene la tesi dell’usucapione. Mia madre quella della libera scelta felina: Tamara ha scelto loro, punto.

E’ così, Tamara ha deciso che i miei dovevano essere i suoi padroni, e anche se si è adattata talora a farmi compagnia nel mio mini-appartamento da single, tuttavia ha sempre rimarcato di volere, un giorno, tornare a casa sua. La domenica, quando era l’ora di andare a pranzo dai miei, si faceva trovare già sistemata nella trasportina. E quando la riportavo da me, restava qualche momento sulla porta di casa mia, a raspare delicatamente con sguardo nostalgico.

Tamara era una gatta persiana. Chiunque conosca i persiani sa che non sono il top della felina agilità. Ecco, Tamara era più persiana di un persiano. Era totalmente, irrimediabilmente, goffa. Non ho mai visto un gatto inciampare mentre cammina. O calcolare male la distanza in un salto e cadere nel vuoto. O rotolare all’indietro mentre cerca di saltare su una sedia. Tamara faceva tutto questo, e molto altro. Le scale le faceva saltando uno scalino per volta, come un leprotto. Quando cadeva si mortificava, ma fingeva indifferenza e si allontanava stizzita dal luogo testimone della sua defaillance.

Non parlava molto, Tamara. Un “miè” a mezza voce se la si vezzeggiava a parole. Un “miè” senza affatto voce, a volte. Il “rmeeeee” roco era la risposta riservata alle coccole, baci, grattatine di orecchie, carezze sul morbido pancione, e allora si rotolava tutta come uno spiedino. A volte la trovavamo già in posizione, supina al centro di una stanza, le zampette raccolte al petto, pronta a ricevere le sue carezze.

Non aveva paura, Tamara. Era fiduciosa che nessuno mai, in casa, le avrebbe fatto del male. Se capitava che maldestri le pestassimo una zampetta, il terrore si dipingeva sul suo volto, e scappava via incredula. Tradimento! Allora correvamo a recuperarla, e a consolarla. Rapida ci perdonava tutto, gorgogliando di fusa.

Più di una volta, per errore, l’abbiamo chiusa in un cassetto, o in un armadio. Amava i cassetti, e tutti i luoghi chiusi. Lei se ne restava lì, silenziosa, per ore, e noi in giro per casa a chiamarla e a morire d’ansia, finché a qualcuno non veniva in mente che forse, quando aveva chiuso quel cassetto, o l’anta dell’armadio… forse… e quando finalmente la ritrovavamo, al nostro rimprovero di non aver risposto al richiamo ci rivolgeva uno sguardo stupito: “ma ero qui, dove altro? Cosa c’è tanto da agitarsi?”.

Una gatta tranquilla.

I gatti normalmente non amano viaggiare. Strepitano, piangono, sudano, sbavano d’agitazione nelle loro trasportine. Tamara no. S’addormentava al principio del viaggio e si destava solo una volta giunti a destinazione. Una perfetta valigia!

Non si scomponeva per nulla. Nemmeno per un topo.

Un paio di estati fa nella casa di campagna dei miei è entrato un topolino, e s’è fatto una tana dietro al frigorifero. Una tana accogliente, con una bella scorta di… crocchette per gatti! Il topo è stato, con un po’ di fatica, sfrattato e ricondotto all’esterno. Il retro del frigo ripulito accuratamente. Due giorni dopo il topo era di nuovo in casa, e la scorta di croccantini meticolosamente ricostituita dietro al frigo. Povero topo! Deve aver pensato che eravamo dei gran seccatori, ad avergli demolito la sua bella casa. Avrebbe meritato di restare solo per l’ammirevole caparbietà dimostrata. Ma una cosa del genere non era evidentemente possibile, e si è proceduto ad un nuovo sfratto, questa volta portando il topo più lontano nell’orto, a sperdere. Deve aver capito, perché non è più tornato.

In tutto questo però Tamara non ha mosso un baffo. Ma una volta in paese non s’usava tenere gatti in casa appositamente per allontanare i topi? Chi lo sa, forse il fatto che Tamara non l’avesse mai visto un topo, prima, ha avuto un suo ruolo. Forse, se il topo fosse assomigliato di più ad un croccantino…

Me la immagino, Tamara, di notte, guardare sbigottita il topo che fa avanti e indietro dalla sua ciotola per rifornirsi di croccantini! Come quelle candid camera degli anni ’70, in cui filmavano l’incredulità dei clienti del bar quando Nanni Loy con noncuranza si avvicinava e inzuppava il cornetto nei cappuccini altrui…

Ecco, così deve aver guardato il topo, Tamara, in quelle sere.

Lo stesso sguardo, probabilmente, che aveva quando vedeva i cani passare per il salotto, quel breve momento per condurli fuori a passeggio. Lo sbigottimento di chi reputa l’avvenimento un affronto talmente inimmaginabile da esulare dall’umana comprensione. Ops, felina comprensione.

I croccantini erano la vera passione di Tamara. Quando era piccola, bastava scuotere la scatola come una maraca, e lei correva a rotta di collo, ovunque si trovasse. Lo usavamo spesso come sistema per ritrovarla quando ce la perdevamo per casa, nascosta chissà dove. Spesso anche solo per ridere di lei che si scapicollava pregustando i croccantini.

Anche le palline,le piacevano, e tutti gli oggetti che rotolano. Correva a perdifiato, prendeva la pallina in bocca, e ce la riportava indietro come un cagnolino, perché noi la lanciassimo di nuovo. Correva così a lungo che poi crollava a terra esausta, respirando con la boccuccia aperta, e noi ci preoccupavamo che potesse prenderle un infarto!

Coi piselli poi…! Era capace di stare ore a correre dietro a un pisello verde, saltarci sopra, lanciarlo con la zampetta e fargli gli agguati. Inevitabilmente il pisello finiva sotto qualche mobile, e lei restava lì a piangere finché non lo recuperavamo. E il gioco ricominciava.

Era una gatta tranquilla, Tamara, e dolce, con gli umani. Ma non altrettanto con gli altri gatti. Era terribile, coi gatti. In paese era diventata il terrore dei randagi. Appena ne vedeva uno varcare il limite del suo territorio, si gonfiava tutta e correva, pancia a terra, contro il malcapitato, ringhiando feroce. Avesse avuto un coltello, se lo sarebbe messo fra i denti, come il terribile parà di Sturmtruppen.

Era terribile anche con sua sorella, la mia Niamh. Quando quattro anni dopo aver preso Tamara abbiamo comprato dallo stesso allevamento anche la piccola Niamh, sua sorella per parte di madre, speravamo che il legame di sangue le avrebbe rese più affabili l’una nei confronti dell’altra. Macchè. Abbiamo provato a spiegarglielo, a Tamara, siete sorelle, dovete volervi bene. Si amavano come fratelli, in effetti: Caino e Abele.

Quando d’estate portavo Niamh in vacanza in paese, dovevamo tenerle separate. Una per piano.

Capitava che s’incontrassero, a volte, ed erano sempre zuffe. Sempre lei, sempre Tamara, ad attaccare per prima. Quell’altra la provocava, non dico di no, andava a mangiare nelle sue ciotole e a fare i bisogni nella sua cassetta, un comportamento intollerabile, sono d’accordo. E Tamara non tollerava, infatti. Quando avvertiva la presenza di Niamh nei paraggi, scandagliava la stanza muovendosi lentamente e girando lo sguardo attento in ogni angolo alla ricerca dell’intrusa. Mi faceva venire in mente quei robot in quel film di fantascienza degli anni settanta, quando gli androidi si ribellano e cercano di far fuori gli umani, e per individuarli, non avendo una buona vista, devono aspettare di rilevarne il movimento. Così era Tamara: incapace di vedere Niamh se quella se ne stava ferma, tutta nera, immobile in qualche angolo buio. Ma come la poveretta faceva un minimo movimento… ecco che Tamara partiva all’attacco, inseguendola per tutta casa fra soffiate di drago e miagolii terrificanti.

Perfino negli ultimi mesi, vecchietta e acciaccata, Tamara non rinunciava a perseguitare la sorella.

La vecchiaia aveva portato in dono a Tamara una notevole sordità. Non sentiva nulla più. Potevamo far cadere un libro dietro le sue spalle, e lei non muoveva nemmeno un orecchio.

A volte, immersa nel silenzio, s’immaginava di essere stata abbandonata. E lanciava alto il suo richiamo, un mao lamentoso e cupo. Appena ci palesavamo davanti ai suoi occhi, il lamento si convertiva in un miè festoso. Di notte, al buio, non era sufficiente chiamarla quando si sentiva abbandonata e piangeva. Mia madre doveva accendere la luce del comodino. Allora lei, seguendo la luce, arrivava lemme lemme nella stanza, e s’accomodava sul cuscino di mia madre, ronfando di felicità.

Con mia madre viveva in perfetta simbiosi. Mangiava solo dalle sue mani, si faceva pulire gli occhi lacrimosi, si faceva pettinare, fare il bidet quando, a volte, si sporcava, causa pelo troppo lungo. Ricambiava con amore incondizionato, occhi socchiusi, e fusa. Le fusa, un dono prezioso, una musica costante. Appoggiare l’orecchio sulla morbida pancia di un gatto che fa le fusa è, credo, il miglior ansiolitico possibile. Si entra in quel ritmo discreto, il tempo si dilata, i pensieri si espandono. Le fusa ci avvolgono, come un abbraccio, penetrano in noi.

Ecco, Tamara non c’è più. S’è addormentata questa mattina per non più svegliarsi. Ma le sue fusa, quelle sono parte di noi, per sempre.