Il mio primo tè aveva il sapore dell’avventura. Avevo sei o sette anni, villaggio Pifano, Villammare. Avevo una borraccia di plastica blu, arrivata da non so dove. Mia madre ebbe l’idea di riempirla con qualcosa di più esotico dell’acqua, e così fece un tè leggero allungato col latte. Partivo con la mia borraccia di tè macchiato alla scoperta dei pericolosi territori esterni, mi aggiravo fra gli alberi di fichi carichi di piccoli frutti lattiginosi, mi arrampicavo, correvo, e ogni poco bevevo un sorso della mia preziosa magica pozione. Nella mia fantasia avevo una benda nera da pirata su un occhio, e forse un cavallo, o un elefante.
Il secondo tè è stato al limone, con tanto zucchero. San Marco, nella vecchia cucina, con i grandi biscotti Atene. Del tè mi piacevano soprattutto il dolce dello zucchero e l’aspro del limone. I pezzetti di biscotto che si scioglievano con il caldo li recuperavo dal fondo della tazza con un cucchiaino. L’ultimo sorso di tè era un delizioso miscuglio di briciole morbide.
Poi sono venuti i pomeriggi di inverno freddo, ero al liceo, quando i termosifoni non erano sufficienti, e per studiare mi avvolgevo nel sacco a pelo. Il tè era un necessario complemento allo studio. Prima ancora di berlo, mi scaldavo stendendo le mani sopra il pentolino, al vapore dell’acqua bollente. E lo so che l’acqua non dovrebbe bollire, e forse lo sapevo pure allora, ma dopo tutto non sono mai stata particolarmente versata nell’arte del tè.
All’università era mia nonna a farmi il tè, tutti i pomeriggi, in agosto, mentre improduttivamente studiavo economia politica. Nel silenzio della grande casa, mentre sedevo alla scrivania che dava sulla portafinestra, nello studio che era stato di mio nonno medico, ascoltavo il suono dei passi lenti e incerti di nonna sulle scale. Aveva già ottant’anni, e ogni pomeriggio mi preparava una tazza di tè con il limone, e poi me la portava su nella stanza, tenendola con le mani un po’ tremanti. Bevevo il tè e sorbivo amore.
Diverso ancora il tè che ho bevuto a Termoli. Avevo da poco cominciato a lavorare, a Campobasso, era settembre e non avevo fatto vacanze estive. Avevo 24 anni appena compiuti e nessuna esperienza del mondo. I miei avevano preso in affitto un appartamento a Termoli, e tutti i giorni, o quasi, facevo avanti e indietro da Campobasso per godermi qualche ora di sole pomeridiano e un po’ di coccole familiari. C’era un negozietto a Termoli che vendeva solo tè e caramelle, in piccole confezioni bellissime. Le caramelle erano in scatoline di latta sulle quali erano ritratti quadri di Constable, di Turner, dei paesaggisti inglesi. L’amore immenso per Turner data da allora. I tè erano moltissimi, di marche infinite, e gusti mai sentiti. Le bustine si potevano comprare anche singole, e mi piaceva prenderne tante diverse fra loro. La mattina, quando mi svegliavo alle 5,30 per prendere il bus delle 6,30 per Campobasso, mi preparavo uno di questi tè, lo sorbivo piano nel silenzio e nel buio della cucina, passion fruit, intingevo pensieri e sogni. Amavo poi uscire per strada, percorrere la strada che costeggiava il mare verso il centro, respirare l’aria salmastra, il fresco silenzio. E amavo tutto il viaggio in autobus, l’odore persistente dello zuccherificio, il lunghissimo ponte sul lago artificiale, il “paese fantasma”, Ripalimosani, che visto dalla strada lì in alto sembrava tutto diroccato e disabitato.
A Campobasso poi ho avuto per qualche mese una stanza in affitto a casa di una signorina Ruta, che abitava altrove e solo di rado si appoggiava nell’appartamento. Quando ero sola volentieri mi svegliavo molto presto, e prima di uscire per andare in ufficio riempivo la vasca di acqua molto calda, vi scioglievo un detergente a base di avena, e poi restavo immersa immobile finchè l’acqua non si intiepidiva. Sempre bevevo un tè mentre me ne restavo così a cullarmi nei miei pensieri.
Gli ultimi tè che ricordo sono stati nella casa che avevo in affitto a Roma, dopo essere rientrata da Campobasso. Era un appartamento piccolissimo, 30 metri quadri appena, perfetto per me. Quarto piano, affacciava sulla valle dell’Inferno. Preparavo il mio tè, poi lo sorseggiavo piano seduta a gambe incrociate per terra, la finestra del balcone aperta, la pioggia che cadendo da direzioni diverse formava piccoli rombi in aria, i fulmini che illuminavano la valle in fondo.
Domani mi sveglierò presto, dopo tanti anni preparerò di nuovo il mio tè. Lo berrò pensando al passato, al presente, al futuro. E ai sogni di questi ultimi giorni, in cui ho riscritto la mia storia, scegliendo percorsi diversi.